Dopo aver assistito, tra la fine di gennaio e quasi tutto febbraio, alle immagini della tragedia di Wuhan, con animo sgomento ma con la distanza di quando la cosa non ci riguarda personalmente, il 20 febbraio abbiamo increduli dovuto accettare che il primo caso di Covid verificatosi a Lodi non sarebbe stato l’ultimo, ma il primo di moltissimi in Italia, in Europa, in tutto il mondo. E, al momento, proprio l’Italia e in particolare l’ efficientissima e operosa Lombardia, sono il bersaglio di questo flagello.
Da allora, nulla è stato più come prima e abbiamo dovuto confrontarci con la necessità di una nuova quotidianità. Come accade nei lutti, la reazione immediata, di incredulità, si è permeata di necessità di ridimensionare e contenere, di confrontarsi con le incertezze di fronte a un evento epocale, un fenomeno completamente nuovo (da gestire non attraverso protocolli scientificamente consolidati, ma per prove ed errori) da parte di un mondo che si riteneva capace di poter, ormai, tenere tutto sotto controllo. Sono salite a galla le paure ancestrali, la diffidenza nei confronti dell’altro, possibile untore, nei confronti di noi stessi, possibili portatori sani, vecchi pregiudizi mai sopiti all’interno dell’Italia e nei confronti di Europa e mondo, un precipitato dell’odio che la nostra società, spinta dalle ingiustizie ma mal guidata dalla politica, ha espresso in tutte le maniere più becere. Insomma, l’angoscia della perdita di ogni certezza ritenuta per tanto tempo ormai consolidata: e inoltre, dopo anni che molti pensavano che il pericolo sarebbe venuto dagli ultimi, ci accorgiamo all’improvviso che la morte viene dai colletti bianchi, dalla globalizzazione selvaggia che ha ridotto tutta la vita a profitto, finanza e affari.
La psicologia ci insegna che di fronte alla paura, un sentimento fisiologico e sano che ci indica un pericolo, l’animale si organizza per l’attacco o la fuga: guai se non avessimo paura, dal cui solo superamento può nascere il vero coraggio. Ma come si fa a fuggire di fronte a un nemico pervasivo e invisibile, di cui nemmeno gli scienziati sanno molto, un fantasma delle nostre più remote fantasie che ci impedisce la difesa, ma anche una fuga mirata e razionale, spingendoci a un fuggi fuggi scriteriato, in ordine sparso? Per sfuggire alla sensazione di impotenza, il rischio è (ed è stato) quello di rifugiarsi nella negazione (che ci tranquillizza dall’angoscia depressiva ma ci impedisce di intervenire) o nel panico, che non essendo permeato di razionalità, ci spinge verso movimenti irrazionali e contraddittori, spesso dannosi. Tutto ciò in un’altalena di abitudine minimizzante, speranze e scoraggiamento. Questa fase, che oggi ancora rimane in maniera marginale, purtroppo, ha caratterizzato l’atteggiamento degli individui e, spesso, anche delle istituzioni.
Dunque, non ci rimane che l’attacco, o, meglio, la difesa attiva, utilizzando tutto ciò che siamo in grado di mettere in campo, anche se le nostre armi sono sconosciute e in gran parte spuntate: certi che, con l’impegno di tutti, riusciremo a uscirne. Ma come non farsi travolgere ed evitare che l’angoscia diventi essa stessa panico, contagiando più dello stesso virus? Certo, è importante crearsi dei pensieri e dei margini di vita normale, senza rincorrere ossessivamente l’ennesima trasmissione televisiva: purché non diventi un modo per negare ciò che sta succedendo, cosa che si ripercuoterebbe negativamente non solo su noi, ma sull’intera collettività; ma ancora più importante informarsi e stare in contatto senza farsi travolgere dalla difficile situazione, attraverso un esame di realtà che ci radichi. Soprattutto, infatti, attuando ciò che gli esperti ci suggeriscono, possiamo recuperare un minimo di controllo della situazione e di serenità di vita.
Per chi, come sempre di più la scienza moderna, crede nell’unità olistica e indissolubile di corpo e mente, è da valutare la lettura morfologica e simbolica delle caratteristiche e delle modalità cui ci spinge il virus.
Esso colpisce i polmoni, cioè gli organi che affiancano il cuore, cui consentono di ossigenare il sangue, permettendo la vita. E, paradossalmente, mai come in quest’epoca si è utilizzato così male l’organo che simboleggia l’amore! Lo si è confuso col sesso (ottimo completamento, sicuramente non sostitutivo di esso!), si è giustificato qualsiasi atto egoistico e l’individualismo sfrenato pensando che solo dimenticandosi degli altri si potesse raggiungere la felicità, si è considerata la prepotenza come un sentimento sano e vitale, si è ritenuto qualsiasi mezzo, compresa la guerra, idoneo a raggiungere i propri fini, si è odiato l’avversario sdoganando con orgoglio, come segnale di autenticità, tutto il peggio dell’umanità. E ora il cuore muore perché non può essere più nutrito e ossigenato dai polmoni!
In un crescendo ininterrotto, l’amore e la condivisione sono stati sostituiti da una falsa ed esagerata socialità, opportunistica e caciarona, i rapporti reali da quelli virtuali, in cui tutto è consentito (anche e soprattutto fare del male) senza limite alcuno. E ora il virus ci costringe a chiuderci in casa per evitare il contagio, riducendo un mondo considerato infinito nella possibilità di false interazioni, nei limiti di quattro mura, sempre se si ha la fortuna di poterlo fare perché si ha una casa!
Ma non c’è esperienza tanto negativa che non possa insegnarci qualcosa, divenendo un’occasione di crescita. Solo accettando liberamente nella loro dimensione civile le restrizioni che ci vengono imposte, solo se capiremo che la libertà non è poter fare qualsiasi cosa, ma scegliere consapevolmente, potremo uscire da questa tragedia. Non più presenzialisti, costretti a fare i conti con noi stessi e con le persone care, potremmo, in questa difficile e angosciosa situazione, recuperare il tanto che abbiamo frettolosamente gettato nella spazzatura, considerandolo desueto…Il Covid ci sta insegnando a caro prezzo delle cose che, sole, potranno salvarci.
Certo, non potremo che ascoltare con angoscia e immensa tristezza i tremendi numeri del quotidiano bollettino di guerra, non potremo non commuoverci di fronte alle morti in solitudine, senza un saluto, senza un abbraccio. Si nasce e si muore da soli, è vero, ma non credo sia un caso se alcune civiltà hanno immaginato figure e cerimonie capaci di accompagnare il moribondo nel suo ultimo viaggio (psicopompo e bardo) e i funerali come capaci di ricostruire il tessuto sociale strappato. Nelle nostre radici c’è l’idea, mutuata dal culto dei Lari, che ogni persona, anche se vecchia, anche se non c’è più, rimane tale, col suo bagaglio di saggezza e di esperienza, un centro d’affetti, un punto di riferimento che non può diventare un semplice numero, un impiccio. A questo concetto è legata l’idea della competenza, che non può essere patrimonio indiscusso di chi si improvvisa, di chi vive la gioventù come un delirio di onnipotenza e di immortalità, ma è frutto di studio e di esperienza. Cosa faremmo, in questo momento, se non ci fossero gli esperti del campo sanitario, che, sia pure tra le incertezze dovute al fenomeno inusitato, stanno cercando di tenere sotto controllo la situazione e rappresentano per tutti, giovani o vecchi, gli unici che potranno arginare il contagio e indirizzare le spesso incerte scelte politiche?
Se utilizzeremo bene questo periodo, potremo riscoprire le cose che veramente contano, il sano utilizzo dei media, non più come sostitutivo, ma come un modo per arricchire i rapporti reali quando per forza di cose sono carenti, potremo imparare ad autoconnetterci, a stare senza fare, per meglio sentire e utilizzare le nostre emozioni, potremo accettare una dimensione non più improntata alla sola velocità e all’efficienza, ma anche alla ricchezza e alla profondità di certe lentezze, potremo accedere a una solitudine accettata, perciò non più solitaria.
Ma soprattutto impareremo che nessuno si salva da solo e che la difesa non può essere che sociale, nell’accettazione della paura e nel suo superamento. Solo una nuova quotidianità e una rinnovata socialità, questa volta autentica, potranno salvarci e aiutarci a recuperare, insieme al nuovo, ciò che di giusto e di profondo ci insegnano, sia pure coi loro errori, la storia e la tradizione, ricordando che siamo “dei nani sulle spalle di giganti”.